Come si calcola il capitale investito nell’impresa?

di: Dott. Antonio Fortarezza

Dottore commercialista in Milano, Economista d’impresa, esperto in determinazioni quantitative aziendali e in architetture e gestione di sistemi di pianificazione e controllo nonché in valutazione d’aziende, marchi e quote societarie, docente e relatore nelle materie giuridiche ed economiche, AML Compliance Advisor.

Nell’ambito della gestione aziendale l’analisi dei costi è molto importante ma vi sono alcuni aspetti che riguardano la composizione degli investimenti ed ecco allora che sarà capitato a molti amministratori di società o in generale agli imprenditori di chiedersi come si calcola il capitale investito nell’impresa.

In effetti, l’argomento è molto interessante e spesso si fa confusione quando si parla del capitale investito nell’impresa.

Se parliamo di quanto un socio, ad esempio di una società di capitali, ha investito nell’impresa, il calcolo è presto fatto perchè il suo capitale investito altro non è che la somma che ha pagato per acquistare le quote della società.

Ma l’argomento non è quanto ha investito il socio nell’impresa, bensì dove sono state impiegate le somme dell’impresa che a sua volta ha raccolto sia dai soci che da altri finanziatori come le banche.

Quindi per rispondere alla domanda come si calcola il capitale investito nell’impresa bisogna chiedersi quali sono gli impieghi o gli investimenti che ha fatto l’impresa con i denari raccolti sia dai soci che da terzi finanziatori.

Prima di tutto è necessario partire dal presupposto che gli investimenti dell’impresa possono essere sono soltanto di due tipi: investimenti nell’attività corrente oppure investimenti nelle attività immobilizzate.

E’ lo stesso ragionamento che fanno le banche quando l’impresa chiede dei finanziamenti, perchè in effetti la domanda che fanno è: a cosa ti servono i denari che ci stai chiedendo?

Ti servono per finanziare le attività correnti (concedere più credito ai clienti, ridurre i tempi di pagamento ai fornitori, acquisto di materie a lenta rotazione etc) oppure di servono per finanziare attività immobilizzate (acquisto di fabbricati, acquisto di attrezzature e impianti etc)?

Secondo questa logica gli investimenti dell’impresa sono riconducibili sostanzialmente ad investimenti in:

  1. Capitale circolante
  2. Capitale fisso

Il capitale circolante, o meglio sarebbe dire il capitale circolante netto, è il vero polmone finanziario dell’impresa, ed è  una grandezza dinamica e sempre in movimento in base alle scelte gestionali legate alla politica di incasso dei crediti, di gestione del magazzino e di pagamento ai fornitori. Ad esempio:

Crediti verso clienti 500.000
Magazzino 200.000
Debiti verso fornitori -350.000
Capitale circolante netto 350.000

Il capitale fisso, è l’insieme degli investimenti fatti per l’acquisto delle immobilizzazioni aziendali (fabbricati, macchinari, attrezzature, impianti etc). Ad esempio:

Fabbricati 900.000
Macchinari e impianti 200.000
Attrezzature 60.000
Capitale fisso 1.160.000

La somma di questi due elementi viene appunto chiamata capitale investito nell’impresa, che nell’esempio sarà pari a euro 1.510.000.

Capitale circolante netto 350.000
Capitale fisso 1.160.000
Capitale investito 1.510.000

Per definizione, quando parliamo di capitale investito nell’impresa, prescindiamo sempre, almeno concettualmente, dal modo con cui questo capitale investito è stato finanziato, quindi in ogni impresa il capitale investito sarà sempre la somma degli elementi visti sopra, ovviamente secondo le diverse proporzioni che in media sono diverse da settore a settore.

Come calcolare il fatturato di pareggio o il Break-Even Point

Nell’ambito del controllo di gestione, quando si definisce punto di pareggio, si intende a seconda dei casi, quel livello di fatturato che riesce a coprire i costi totali (costi fissi e variabili) o quel livello di prodotti da produrre e vendere che ci permette di coprire come prima, i costi totali.

In altri termini se la domanda è quanto devo fatturare per coprire sia i costi fissi che i costi variabili allora devo calcolare il fatturato di pareggio

Oppure che è lo stesso, quanti prodotti devo produrre o servizi devo vendere per coprire i costi totali.

Il break-even point (punto di pareggio abbreviato BEP) è uno strumento di controllo e previsione della gestione aziendale molto importante.

È uno strumento di previsione perché con esso determiniamo le vendite che serviranno a raggiungere una situazione di pareggio fra i costi ed i ricavi.

Lo si utilizza come strumento di controllo perché consente di verificare, durante l’attività di produzione e ad ogni livello di esso, gli utili e le perdite e di  intervenire nel qual caso le previsioni non si siano verificate.

Come abbiamo già visto, in ogni impresa vi sono due tipi di costi:

  • Costi fissi: sono i costi che non variano al variare della quantità di produzione (stipendi, affitti…)
  • Costi Variabili: sono i costi che possono variare in maniera più o meno proporzionale alla quantità di produzione(costi materie prima, consumo energetico…)

In questa analisi è molto importante definire il Margine di Contribuzione (differenza tra ricavi e costi variabili).

Come si calcola il punto di pareggio?

Calcolare il fatturato di pareggio è molto semplice, prendo i costi fissi totali e li divido per il margine di contribuzione del singolo prodotto.

Per fare un semplice esempio, se il prezzo di vendita è di euro 100 e il costo variabile è di euro 30, avremo un margine di contribuzione unitario di euro 70.

Se i costi fissi totali sono pari a euro 100.000, le quantità da vendere per essere in equilibrio sono pari a 1.429 (100.000/70,00).

Ovviamente per conoscere il fatturato di pareggio, basterà andare a moltiplicare le quantità di equilibrio pari a 1.429 per il prezzo di vendita pari a euro 100.

In altre parole se non vendo 1.429 prodotti sono in perdita, se vendo 1.429 prodotti sono in pareggio, se vendo più di 1.429 prodotti inizio a guadagnare.

C’è da dire però che il punto di pareggio, come analisi, non è completa, anche se è un ottimo strumento di calcolo economico.

Nonostante alcune debolezze nel modello, la break-even analysis è da ritenersi uno strumento con cui nelle prime fasi del ragionamento per il controllo di gestione, si possono individuare utili informazioni di partenza.

Calcolare il margine di contribuzione per il controllo di gestione

Calcolare il margine di contribuzione per il controllo di gestione è una attività di grandissima importanza poichè ci permette di valutare meglio alcuni risultati economici intermedi che devono essere conosciuti all’interno dell’impresa.

Per calcolare il margine di contribuzione è semplicissimo, perchè basta fare la differenza tra i ricavi e i costi variabili.

Il margine di contribuzione potrà essere calcolato sia a livello generale per l’impresa, ma ancora più utile è calcolare il margine di contribuzione per prodotto, servizio oppure per linea di produzione etc.

La cosa interessante è che se hai un approccio alla gestione aziendale orientata al calcolo del margine di contribuzione potrai ad esempio sempre sapere quale percentuale di margine di contribuzione potrà avere il tuo prodotto o il tuo servizio, che è un utilissimo indicatore gestionale.

Se andiamo a vedere come lo abbiamo calcolato la prima cosa che si evidenzia è che il margine di contribuzione è quella grandezza economica che serve per poter coprire i costi fissi aziendali.

In altri termini se nella mia impresa ho dei costi fissi e il margine di contribuzione non riesce a coprirli le cose non vanno affatto bene.

Il margine di contribuzione ci evidenzia quella parte di ricavi che residuano per coprire gli altri costi aziendali, o comunque non i costi variabili.

In parole povere il margine di contribuzione deo prodotti o dei servizi dell’impresa, serve per coprire i costi fissi.

La lettura di questo margine può avvenire sia guardando i ricavi e i costi dell’impresa nel suo complesso che guardando il singolo prodotto o il singolo servizio.

In quest’ultimo caso parleremo di margine di contribuzione unitario e di solito si calcola facendo la differenza tra il prezzo di vendita del singolo prodotto o servizio e i suoi costi variabili.

Per fare un semplicissimo esempio, supponiamo che il prezzo di vendita  di un prodotto sia di 1000.
E supponiamo che il costo variabile unitario di questo prodotto sia di 400 euro.
Il margine di contribuzione unitario sarà pari a 600 euro, che servirà per coprire i costi fissi.

Analizziamo i costi aziendali. Cosa sono i costi variabili, i costi fissi e i costi totali?

Una delle cose più importanti, che è la base di partenza per poter effettuare il controllo di gestione della propria impresa è inquadrare correttamente i costi aziendali.

Quando ci chiediamo come analizziamo i costi aziendali, o come suddividere gli stessi, in realtà stiamo facendo dei ragionamenti al fine di cogliere degli spunti di miglioramento nella gestione dell’impresa per poter migliorare o la redditività o in certi casi per evitare la crisi.

Par strano ma una cosa così semplice in moltissimi casi viene addirittura sottovalutata.

Distinguere in modo chiaro i costi aziendali, ci aiuta a capire quelle che potrebbero essere le leve di gestione necessarie per un risanamento o per aumentare la redditività dell’impresa.

Oltre a ciò, comprendere la struttura generale dei costi, può avviare una importantissima revisione di tutti i processi decisionali e quindi il miglioramento globale dell’impresa e dei relativi risultati economici.

Non dimentichiamoci mai, che in azienda un costo deve sempre essere visto come risorsa per l’azienda, quindi non dovrebbero esistere costi inutili, ma costi il cui sostenimento deve essere legato ad una specifica finalità aziendale.

Quando in alcune discussioni sento parlare di COSTI INUTILI, non comprendo per quale motivo gli stessi vengono sostenuti. Se taluni costi vengono ritenuti inutili, devono sparire, e non essere neanche discussi.

Come suddividere i costi aziendali per il controllo di gestione? 

Analizziamo i costi aziendali partendo da una suddivisione molto semplice ed efficace.

Con riferimento alla variabilità dei costi rispetto alla produzione o al fatturato, i costi si suddividono in costi fissi, costi variabili e costi totali.

I costi fissi sono quella categoria di costi che non subiscono nessuna variazione (almeno nell’anno) al variare della produzione, e questo implica che sono costi che bisogna sostenere anche se il fatturato sarà pari a zero. Se si producono 100 o 1000 unità di prodotto, l’ammontare dei costi fissi non varierà.

Questi costi, vengono anche definiti “costi di struttura” perché da quando li si ha definiti restano tali e non si modificano. Pensiamo ad esempio a quei costi di carattere generale che devono essere sostenuti e che non rientrano nei costi della produzione (servizi amministrativi generali, utenze telefoniche, assicurazioni, affitti passivi, etc).

Ad esempio se acquistiamo un macchinario il cui costo è pari a 10.000 (e non importa se lo paghiamo subito o facciamo un mutuo) e prevediamo che possa essere utilizzato nell’impresa per 10 anni, ogni anno avremo un costo fisso di euro 1.000, a prescindere da quanti prodotti produrremo e venderemo.

I costi variabili invece variano a seconda  della quantità di produzione. Questo significa che se la produzione è nulla i costi variabili saranno pari a zero. Più aumenta la produzione e più aumentano i costi variabili in modo proporzionale. Ad esempio, un costo variabile tipico, è la materia prima necessaria per produrre un determinato bene, oppure il costo del prodotto da acquistare per essere commercializzato, oppure ancora il costo da sostenere per affidare all’esterno alcune fasi della produzione, oppure il costo della provvigione all’agente etc.

I costi totali, sono semplicemente la somma dei costi fissi e dei costi variabili.

Con questa prima impostazione con cui analizzare i costi aziendali, possiamo iniziare a calcolare un importante margine economico della gestione aziendale, e cioè il MARGINE DI CONTRIBUZIONE, che ci indica quanta parte dei ricavi rimane dopo che abbiamo coperto tutti i costi variabili.

Il Margine di contribuzione è semplicemente la differenza tra i Ricavi e i Costi variabili.

Per un imprenditore è di fondamentale importanza effettuare la distinzione dei costi aziendali, poiché attraverso questa analisi si riesce a comprendere la dinamica che la produzione o il fatturato deve avere per guadagnarci e non chiudere in perdita.

Molto spesso, alcuni imprenditori, dicono che ci guadagnano o ci perdono guardando solamente la differenza tra i ricavi e i costi variabili, e cioè andando a guardare come visto prima il Margine di Contribuzione, mentre invece si deve fare sempre la differenza tra i Ricavi e i Costi totali. Infatti la differenza tra Ricavi e Costi totali è il REDDITO OPERATIVO che è il vero risultato della gestione.

Per il controllo di gestione, come vedremo in altri approfondimenti, gli elementi discussi con questo articolo sono di fondamentale importanza.

Analisi enogastronomico finanziaria. I numeri su cui puntare per la crescita e l’occupazione

Ogni giorno ascoltiamo centinaia di numeri, e in alcuni casi ne trascuriamo la loro importanz. Spesso quando si parla di numeri, soprattutto negli ultimi anni, si parla di un paese che per certi versi è fermo, statico e che fa fatica a riprendersi.

In mezzo a questa tristezza, soltanto chi non vuole vedere, non si accorge che abbiamo un paese in cui vi sono settori a due cifre e che non smettono di contribuire allo sviluppo della nostra economia nazionale. Stiamo parlando del comparto agricolo, del settore enogastronomico e del settore della cultura e del turismo.

.….si è vero, fanno più audience i numeri del referendum, i numeri della cattiva politica e delle gravissime contraddizioni di scelte di politica economica scellerata….

Nella mia attività professionale, ho toccato con mano alcuni settori legati all’agricoltura che vanno dal settore vinicolo al settore del riso, e mi sono accorto che i fabbisogni di questi comparti dell’economia sono in grandissima crescita, alimentati anche da una nuova generazione di imprenditori agricoli che oggi più che mai sono altamente sensibili ai temi del controllo di gestione e del marketing per assicurarsi uno sviluppo consapevole. Ad esempio, il controllo di gestione nelle aziende vinicole, è aumentato negli ultimi anni in maniera interessante, e soprattutto nel comparto del settore vinicolo molti imprenditori sono diventati progressivamente molto sensibili al controllo di gestione e all’analisi dei costi di produzione.

Ho inventato quasi per gioco il termine “analisi enogastronomico finanziaria” durante un incontro di lavoro con un imprenditore agricolo, alle prese con alcune scelte finanziarie, ma i numeri di cui si parla nel settore agricolo, non sono affatto un gioco.

Nel 2016 sono aumentati del 12 per cento i ragazzi italiani under 34 anni che hanno scelto di lavorare in agricoltura, una nuova generazione di contadini, allevatori, pescatori e pastori che saranno i principali veicoli di crescita di tutto il comparto agroalimentare italiano e che con la loro spinta all’innovazione spingeranno l’occupazione. Il settore agroalimentare italiano, ha registrato nel 2015 una crescita superiore a quella della media dell’economia nazionale: il valore aggiunto del settore registra una crescita del 4,2%. Nell’anno 2016 i dati rimangono inalterati e confermano la crescita.

Nel settore dell’agricoltura, l’occupazione ha registrato un tasso incrementale annuo del +3,8%, a fronte di un dato medio nazionale dello 0,8%. Con questi numeri tra occupazione e crescita, l’agricoltura italiana ha registrato nel 2015 il valore aggiunto più elevato d’Europa grazie alla qualità e sicurezza alimentare.

Un record europeo che con 32,4 miliardi di valore aggiunto ci ha portato a superare la Francia. Secondo i dati di Banca d’Italia, il settore agricolo non ha avuto i problemi che altri settori hanno avuto con riferimento all’accesso al credito, dimostrandosi un settore su cui anche il sistema creditizio sta puntando, risultando meno rischioso di altri comparti produttivi delle imprese.

I numeri positivi continuano e non dimentichiamo mai che l’Italia è l’unico Paese al mondo con circa  5.000 prodotti alimentari tradizionali censiti dalle regioni ottenuti secondo regole tradizionali protratte nel tempo per almeno 25 anni, circa 300 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg.

Un patrimonio del Paese che genera valore e su cui non a caso il 30% degli italiani ritiene che possa garantire in futuro maggiore ricchezza ed occupazione, rispetto al 25% che indica l’industria, il 22% l’artigianato e il 20% la cultura. scuola-enologica-conegliano

Sul fronte del settore vitivinicolo abbiamo il primato mondiale per qualità.

Le analisi economiche del settore vitivinicolo italiano, ci raccontano di un tesoro da oltre 14 miliardi di euro, con un export che nel 2015 ha toccato il record dei 5,4 miliardi e che nei primi mesi del 2016 ha registrato un trend in crescita.

Nel mondo dei numeri e della finanza, in cui vengono valutate performance reddituali, spesso si è portati ad esaltare progetti imprenditoriali con numeri di molto inferiori a quelli citati sopra, commettendo il gravissimo errore di essere parziali e sottovalutare comparti con redditi operativi a due cifre.

Questo è ciò che rende il sistema Italia unico al mondo. È su questo che dobbiamo costruire il successo dei prossimi anni.